Atmosfere nordiche e mondi interiori - (1996) – Paolo Rizzi - Critico d’arte

Chi ha mai detto che la pittura resta sempre lì, ferma, immobile? Essa - come ha incominciato a dimostrare quasi mezzo millennio fa Leonardo da Vinci - si muove continuamente: anzi trapassa da forme e modi diversi, si rigonfia e si dilata, s’aggruma e si stempera in mille gocce di rugiada. Ben lo sa un altro Leonardo, di nome Beccegato, pittore aristocratico e solitario che solo ora nella sua Venezia, esce dal guscio presentandosi al pubblico. I suoi quadri, fin da quando li vidi qualche tempo fa infilati in una collettiva a Udine, mi colpirono. Mi parvero esseri larvali che parlavano a sussurri, a umbratili velature, a biancastre sfumature di tono. Si agitavano (come si agitavano!) dentro di me, penetrando nei miei recessi psichici. Mi risvegliavano sopiti pensieri, ricordi lontani che parevano perduti nella nebbia. Talora si tramutavano in spiriti vaganti che nascevano dal buio.

Leonardo Beccegato è tra coloro che seguono l’aureo moto epicureo: “vivi nascosto”. Non è soltanto lui che si nasconde, carattere schivo e riservato quanti altri mai, anche se apparentemente cordiale; è la sua pittura che sembra quasi non voler farsi vedere. Bisogna – starei per dire – stanarla: cioè stravederla, intuirla al di là dei fantasmi che ci appaiono. Essa mi ricorda un racconto di Fruttero e Lucentini che descrive, sullo sfondo delle rovine di un castello dell’Essex, una “mezzatinta comune” una stampa ottocentesca su cui apparivano e disparivano strane forme dell’umor nero tipicamente inglese. Certo anche con Beccegato siamo in una atmosfera nordica, tra gelide brume. La pittura si fa liquida, sfocata, tutta sfibratane le sfumature che vanno dai bruni a certi bianchi gelidi, rabbrividenti.

E’ chiaro: siamo in una dimensione essenzialmente psichica. L’artista non descrive paesaggi solari: ama, semmai, la luna che rende così immagate e irreali le forme. Pittura freudiana, di malinconie indefinite, quasi abbandonata ad una sorta di voluttà di annientamento. Compaiono forme e figure, donne dalla positura antica edifici che paiono medioevali: c’è il richiamo di archetipi classicistici, specie in certi dipinti che ricordano “Concerti campestri” e “Sacre conversazioni”. Ma tutto è avvolto in un clima che riporta a magmi interiori, a nodi che stentano a sciogliersi dentro il nostro subconscio. Proprio per questo – e per questa conturbante commistione – siamo presi da un fascino che punge; e l’impressione di sconcerto pian piano si tramuta in ammirazione. Beccegato riesce a tramutare le sue sottili vibrazioni d’animo, i suoi paurosi trasalimenti, in termini di pittura-pittura. Ben me ne rendo conto: se ci sono echi stilistici lontani (dal Greco e da Leonardo, da Sironi o da Mafai) non appare in fondo alcuna mutazione vera e propria. La pittura vive di se stessa, delle sue sottilissime fibre che intravvediamo tra chiaroscuri e luminismi.

Naturalmente c’è voluto, in Beccegato, uno sforzo non indifferente per buttar fuori quel che c’era dentro di lui. Me ne rendo conto. I suoi dipinti gli sono costati. E’ stato come rovesciare i brandelli dell’anima. Ma l’ammirazione cresce proprio per questo. Siamo abituati, nelle nostre peregrinazioni artistiche, a scoprire scenografie e scimmiottamenti, manierismi ed esibizioni. Stavolta il viaggio è all’inverso: entriamo nel mondo di Proserpina, dove la primavera è lontana, un miraggio che potrà schiudere (ma quando?) l’animo a orizzonti solari: intanto un tremore ci assale: forse la paura dell’ignoto.