Realismo magico 1 - (2000) – Paolo Rizzi - Critico d’arte

Ciò che colpisce subito, nella pittura di Beccegato, è la luce: quella certa luce lattiginosa e opaca che scivola mestamente tra i fantasmi delle immagini, poi si rapprende, si intorbidisce, si dilata e tutto invischia in modo fantomatico. Essa diventa quasi l’impronta dell‘artista, il suo modo di ricordare. L’occhio scorre perplesso tra i colori che si sgranano morbidamente sfuggendo da una captazione precisa: le ocre cangianti, i rossi mattone e, soprattutto, quel grigio azzurrino che nasce (e non può essere diversamente) da uno stato d’animo.

Così Beccegato ci appare subito come un pittore unico: del tutto originale. Si capisce che la sua pittura nasce da un fondo psichico, da sogni non ben risolti, da una malinconia di fondo che si espande ovunque. E’ come un magma , un’atmosfera visionaria che cela un desiderio, tipicamente romantico, “di vedere oltre”, di superare la contingenza meschina delle cose. Da qui, osservando meglio i significati della pittura, si scopre la propensione del pittore di trasformare il quadro in un’allegoria, in una metafora: magari in una velata e complessa simbologia esistenziale.

Si è tentati quindi di “leggere” dall’interno le “figure” che s’inseguono nell’aria umida, che compaiono e dispaiono, che si smorzano come estenuate da una impossibile fatica di vivere. Ed è a questo punto che la nostra fantasia si sostituisce a quella dell’artista; e finiamo noi stessi per entrare nella pittura, per interpretarla e trasfigurarla. Per farla nostra.

Credo che questo, almeno, sia l’approccio – uno dei possibili approcci – a questa mostra che Beccegato Leonardo, artista veneziano, presenta nella sua Venezia, all’interno della Chiesa di San Vidal, sotto la tela di Carpaccio. Il luogo è solenne: e la pittura di Beccegato risponde con la sua inconfondibile solennità. Essa discende dai maestri della pittura antica, in una linea che va da Leonardo (nomen omen) ai secenteschi, fino a Sironi e Savinio. Lo si capisce dalle forme classiche tornite, talora poderose; dal gusto dello sfumato; da una certa quale qualità murale da affresco: dagli stessi soggetti religiosi o mitologici; dalla congruenza della composizione; e naturalmente da quel giuoco, un po’ ambiguo, delle luci e delle ombre.

Beccegato si rivela pittore colto, che vuole rappresentare i suoi sogni: e dietro i suoi sogni la «forma mentis» dell’uomo di oggi, con le sue nostalgie per l’antico e la voglia di buttar fuori i suoi grovigli psichici.

Per giungere a questo Beccegato usa anche strumenti moderni: come la decontestualizzazione, cioè lo spiazzamento ideologico. Ecco allora quel Cristo che si appoggia al bracciolo barocco della poltrona: ecco la Venere che si stende davanti allo scorcio del Canal Grande; ed ecco, magari, il burattinaio che gigantesco si sporge dalla finestra d’una casa. Non solo: ma egli stesso si fa antico ed insieme moderno; cerca di raggiungere uno stato intermedio, fluido, tra l’essere e l’apparire; e giuoca subdolamente con l’ambiguità. Il tutto, naturalmente, entro quel filtro visionario e fantomatico che lo caratterizza, dove l’occhio finisce per perdersi. Tanto che lo stesso “vedere”, dietro e dentro le forme disciolte e smaterializzate, si fa arduo, come se i vapori della pittura si ottenebrassero.

Eppure con tutti i risvolti e i grumi psichici che stanno sotto, non possiamo non dire: questa è vera pittura. Tanto più vera in quanto, disperatamente, cerca di essere grande: o almeno vicina a quella dei maestri antichi. Il che oggi ci riempie di meraviglia (e di sbigottimento).